Confessioni di un Digital PR: Riccardo Bianchi

 

Oggi è il turno di Riccardo Bianchi, anche lui come i suoi colleghi chiamato a confessare i propri peccati su DoLab Magazine. Se non avete avuto modo di incontrarlo a Fare in Digitale, l’Open Day del 22 settembre scorso, questa è l’occasione per conoscerlo meglio. Riccardo è Digital Manager, Digital PR e Social Media Expert.

Ciao Riccardo, ben ritrovato. Iniziamo subito con una domanda che va dritta al punto: digital PR e PR tradizionali, cosa le caratterizza e come si differenziano?

Credo che in Italia nessuno sappia ancora bene come sfruttare un digital PR. Eppure io non vedo un divario con le PR tradizionali. Le PR hanno due obiettivi: far conoscere il prodotto e l’azienda prima ancora che arrivi la pubblicità, e allargare la rete delle sue relazioni. E per fare questo, oggi, non si può trascurare il lato digitale.
L’idea che le PR siano ridotte al rapporto dell’ufficio stampa con i giornalisti e che il digital PR sia uno che discute i cachet con i blogger mi sembra ridicolo, ma tante aziende hanno questa convinzione.

Quindi si tratta di integrare più attività?

Credo che la soluzione migliore  sia una via di mezzo tra il digital marketing e le PR tradizionali, perciò una delle grandi capacità dev’essere quella di conoscere tante persone, dall’altra avere chiari i canali e il loro funzionamento.

È corretto dire che l’obiettivo principale sia proteggere la brand reputation o c’è dell’altro?

No, non è corretto. La brand reputation non si difende, si fa.
Ci si inventano opportunità, eventi, interventi sui temi di attualità. Ma veramente un’azienda può solo giocare in difesa? Capisco che l’Italia sia un paese aziende a conduzione famigliare, dove i rapporti per l’azienda li fa sempre e solo il direttore, che poi è anche il capofamiglia. Ma è l’esperto di PR che dovrebbe occuparsi di intrattenere i rapporti. Siano PR offline o online.

Insomma, il confine tra online e offline, in Italia, è ancora molto labile.

Ormai la gente compra i libri (cartacei) degli Youtuber e la blogger Chiara Ferragni detta legge sui vestiti da indossare.
In futuro le figure del digital PR e del PR tradizionale potranno essere anche separate, ma solo perché il lavoro è tanto ed è meglio concentrarsi ciascuno sul proprio campo. Ma dovranno sempre più lavorare a stretto contatto e coordinarsi.

Il digital PR di un’azienda deve diventare un rappresentante incarnato del brand online?

Rappresentare il brand è sempre un termine complesso, vedo che molti esagerano e parlano sul web come se fossero il proprietario dell’azienda con cui collaborano. Per questo servono policy molto rigide e chiare.

Il modo di lavorare cambia da un’azienda a un’altra?

Certo, le aziende sono diverse, i settori sono diversi, i target sono diversi e i linguaggi sono diversi. Se non ti immedesimi in una azienda e non la capisci, se non ne comprendi i funzionamenti e le possibilità, se non conosci i materiali, i processi, anche le persone, è difficile portarne fuori i valori, la visione e la missione.

È più una questione di conoscenza profonda che di impersonificazione, quindi?

Una mia responsabile una volta mi disse che un consulente deve conoscere l’azienda meglio di chi ci lavora dentro.
Ho ancora a casa pile di libri delle aziende con cui ho lavorato, tutti letti. Non hai idea di quanti spunti io abbia preso da quelle pagine per tante attività con le aziende stesse, e spesso le presentavo al cliente, che mi diceva: “Sei sicuro di questa cosa? Io non lo so chi te l’ha detto.”

Le community delle grandi aziende sono ampie e composte da un’umanità variegata, e non tutti possono essere sempre d’accordo con le posizioni del brand. Come si gestisce l’eventualità di una polemica di proporzioni internazionali?

Ogni azienda è complessa, dalla più piccola alla più grande. L’importante è arrivare in anticipo sulla crisi. Il crisis management, un documento approfondito di Q&A, una policy interna, un media training, corsi di aggiornamento sui social per evitare che il manager condivida link volgari o razzisti, sono tutti strumenti indispensabili, a qualunque livello. Poi si interviene sui giornalisti, gli influencer, i partner, per sminuire una gaffe o spiegarla, così da non alzare un polverone.

Questo per quanto riguarda la prevenzione. Ma quando lo scandalo è già scoppiato?

Rimane solo la soluzione che segue all’errore. Di solito la scelta migliore sono le scuse seguite da un impegno a cambiare.

Il mondo dell’editoria è diverso da tutti gli altri campi del business, il prodotto è un prodotto speciale e il pubblico è forse più sensibile ma anche più difficile da convincere. So che hai lavorato per Mondadori e sono molto curiosa di chiederti come l’hai vissuta.

La verità è che l’editoria è diversa perché non decide il proprietario, il manager o l’ufficio marketing, ma la redazione. E non sempre le redazioni hanno all’interno persone lungimiranti. Con la mia agenzia lavoriamo ancora per Mondadori e speriamo di continuare.

Di cosa ti occupi di preciso?

Il progetto che seguo io è il Tour di Panorama d’Italia. Fa tappa in varie città e ogni volta offre una serie di eventi con artisti, esperti, politici di livello nazionale. Comunicarli sui social e raccogliere iscrizioni è la parte difficile, perché sono tutti argomenti e target diversi. E qui entra in gioco l’importanza del rapporto personale. Puoi avere la pagina perfetta su Facebook e invitare Fedez, ma il vero boom delle iscrizioni lo farai solo quando Fedez posterà “iscrivetevi qui”. Perciò anche questo è compito del digital PR: organizzare l’uscita dei contenuti in coordinamento con questi influencer e seguirne il rapporto. È interessante, credimi.

Chi sono gli influencer e come vanno “utilizzati” da parte un brand?

Esistono influencer che vogliono esserlo (e te lo fanno pesare) e influencer che non sanno di esserlo. A volte questi ultimi sono incredibili in termini di risultato, viralità e redemption. Spesso fanno altri mestieri, ma quando scrivono qualcosa smuovono un potentissimo zoccolo duro di seguaci. Spesso questa categoria ce la dimentichiamo, puntiamo sullo youtuber di turno, che però fuori dalle fiere dei fumetti smuove venti persone. E noi per fargli fare una comparsata gli abbiamo dovuto pagare una settimana alle Maldive.

Facciamo un passo indietro. Che tipo di percorso hai alle spalle?

Nasco giornalista dai 19 anni, ho lavorato a La Repubblica, anche in redazione, ho scritto per l’Espresso, sono stato autore di una serie di inchieste per La7.

Quindi anche tu hai fatto il salto dal giornalismo tradizionale a quello online?

Sì, prima sono diventato professionista, poi ho scelto di tornare al primo amore, il web, quando un giorno ho sentito parlare di social media marketing nel 2010. All’epoca i miei colleghi mi sfottevano, dicevano che volevo giocare su Facebook. Mentre lavoravo feci il corso di Sqcuola di Blog sotto la direzione di Andrea Alfieri. Da lì ho deciso che quello sarebbe stato il mio mestiere, ma sempre con un occhio all’aggiornamento tecnologico e alle strategie.

Ultimissima domanda. All’open day hai anticipato il discorso: “Applicare l’approccio netnografic al Digital PR”. Che cosa significa esattamente?

Che bisogna ricostruire la rete del settore sul web, trovare i personaggi più influenti, ma anche le relazioni che ci sono tra le realtà della mia “rete sociale”. Più informazioni ho e più riesco ad arrivare allo scopo che mi sono prefissato (senza escludere gossip e notizie poco piacevoli, che poi preferisco non usare, ma che è bene tenere presenti). Tutte le PR richiedono un bel po’ di cinismo in certi casi. Non è il cinismo di House of Cards, ma quasi. Tutto il resto è marketing. Ma quello è ancora più cinico, no?

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